Giorno della Memoria 2024

 

Cure proibite, cure negate:

medici ebrei alessandrini sotto le leggi razziali

 

Nell’Italia delle leggi razziali, quella del 29 giugno 1939 n. 1054 “Disciplina dell’esercizio delle professioni da parte dei cittadini di razza ebraica” disponeva che l’esercizio della maggior parte delle attività professionali, tra cui quelle afferenti al settore sanitario (medico-chirurgo,  farmacista, veterinario e ostetrica) era consentito agli ebrei «discriminati» previa iscrizione in «elenchi aggiunti» in appendice ai normali albi professionali, e ai «non discriminati» se iscritti in elenchi speciali; tutti potevano invece continuare ad esercitare l’attività a favore delle sole persone appartenenti alla razza ebraica.

L’applicazione della legge determinò la cancellazione dall’albo professionale di numerosi sanitari ebrei, sia italiani che stranieri. A questi professionisti fu pertanto proibito di continuare ad assistere i loro pazienti che, a loro volta, si videro privati del diritto fondamentale di essere curati da medici spesso stimati ed esperti. Come scrive Enzo Colotti, «nel caso di professioni altamente qualificate la declassazione subita si trasformava in una forma di colpevolizzazione, come se il soggetto colpito dal divieto di esercitare la propria professione (in una società come quella italiana circoscrivere le prestazioni professionali soltanto entro la cerchia dei cittadini dichiarati di razza ebraica significava di fatto generalmente la cessazione di una attività lavorativa) dovesse espiare la colpa di avere invaso un terreno che gli era improprio» (Enzo Colotti, Il fascismo e gli ebrei. Le leggi razziali in Italia, Roma, Laterza, 2003, p. 76). Ilaria Pavan aggiunge che «la perdita del lavoro si presentava come il primo passo verso una vera e propria catastrofe personale che metteva in discussione alla radice non soltanto il benessere materiale e le basi di sussistenza di una famiglia, ma l’intero sistema di relazioni che erano a fondamento di un’esistenza tranquilla e decorosa» (Ilaria Pavan, Le conseguenze economiche delle leggi razziali, Bologna, Il Mulino, 2022, p. 75).    

Il fascicolo “Esercizio professionale di medici e farmacisti ebrei” della Prefettura di Alessandria conserva pratiche relative a vari professionisti di origine ebraica residenti nel territorio provinciale che furono colpiti dall’inumano provvedimento; di questi, in occasione del “Giorno della memoria 2024”, abbiamo scelto di presentare due esempi particolarmente significativi.     

Il primo caso riguarda un medico ebreo di Bassignana che, cancellato dall’albo, non poté più esercitare la professione. Con nota del 9 marzo 1939 il Tenente colonnello del Comando Gruppo Carabinieri Reali di Alessandria riferiva al Prefetto che il medico «attualmente ha in cura diversi ammalati che desiderano essere da lui assistiti fino a guarigione» e domandava di «poter continuare l’assistenza» promettendo «di non prendere in cura nuovi ammalati».

Poiché anche i pazienti avevano espresso il desiderio che il dottore potesse continuare l’attività, l’ufficiale riteneva opportuno che, «per ragioni assistenziali ed umanitarie», fosse accordata «la limitata chiesta autorizzazione», tenendo conto anche del fatto che al sanitario, dopo il licenziamento da medico condotto nel novembre 1938, non era stata ancora liquidata la pensione e versava in condizioni miserevoli, peraltro con moglie e due figli a carico.

La risposta del Prefetto giunse due giorni dopo, inflessibile: il medico «non può esercitare alcuna attività professionale a favore di cittadini non appartenenti alla razza ebraica» e «non è possibile concedere alcuna proroga all’attività professionale, che dal 1° marzo in poi deve considerarsi abusiva e come tale è stata già denunciata dal Sindacato Provinciale Fascista dei Medici al Procuratore del Re». Lo stesso medico fu nuovamente denunciato il 29 aprile 1940 dall’Arma di Bassignana perché, seppur radiato dall’albo, aveva continuato ad esercitare la professione curando – per di più a titolo gratuito - un concittadino ottantenne affetto da polmonite. Infine, la Commissione Centrale per gli esercenti le professioni sanitarie, nell’adunanza del 22 febbraio 1941 respinse il ricorso del medico, non ammettendo alcuna eccezione all’applicazione della legge: «Si appalesa pertanto, di fronte al preciso disposto della legge, del tutto irrilevante agli effetti giuridici la domanda di discriminazione che gli interessati abbiano eventualmente proposta al Ministero dell’Interno. Conferma il detto, il successivo art. 27 della legge razziale, che stabilisce che, avvenuta la cancellazione, i cittadini di razza ebraica non possano più esercitare alcuna attività professionale e che con la detta cancellazione deve essere esaurita e deve cessare qualsiasi prestazione professionale da parte degli stessi cittadini di razza ebraica non discriminati a favore di cittadini non appartenenti alla razza ebraica». 

Il secondo caso coinvolge un ebreo straniero, che esercitava la professione di odontoiatra presso uno studio a Tortona ed aveva in corso domanda di discriminazione diretta al Ministero dell’Interno e di reiscrizione all’albo dei medici.

Con una lettera del 14 luglio 1940 un collega di un altro gabinetto odontoiatrico tortonese lo aveva denunciato alla Prefettura per esercizio abusivo della professione, sostenendo che «in questo momento in cui la Patria ha soprattutto bisogno che ogni cittadino compia il proprio dovere e in cui tanti professionisti sono stati ripetutamente chiamati alle armi e costretti perciò, come il sottoscritto, a sospendere la professione, ritengo preciso dovere di italiano e di fascista segnalare quanto sopra all’Eccellenza Vostra onde abbia a cessare tale situazione moralmente e legalmente insostenibile».

In sua difesa, interrogato dai Reali Carabinieri, intervenne il titolare dello studio dentistico presso cui l’ebreo straniero prestava servizio, ricordando che questi risiedeva in Italia da molti anni, era sposato con una donna italiana cattolica da cui aveva avuto una figlia battezzata, e nel settembre 1938 aveva ricevuto dal Segretario Particolare del Capo del Governo una lettera di rassicurazioni del seguente tenore: «Il Duce presa visione della vostra dell’8 corrente mese mi incarica di dirVi che potere star tranquillo. Firmato Bastianini».

Il titolare inoltre assicurava che la condotta del suo aiutante era irreprensibile sotto il profilo morale («come marito è superiore ad ogni elogio, come padre può essere citato come modello, come genere uomo più unico che raro per essersi assunto l’obbligo del mantenimento in toto degli suoceri disgraziatamente privi di ogni risorsa»), professionale («gode la più grande stima e la più illimitata fiducia della cittadinanza tortonese», avendo in cura anche il Vescovo ed altri illustri personalità locali) e politico («estraneo ad ogni ingerenza politica»); il motivo per cui lo aveva scelto come aiutante era stato «per dovere di giustizia e di alta moralità, per umanità, per il buon nome del mio studio, per riguardo alla affezionata clientela e per la continuazione della generosa prestazione a tutti i poveri». Pur ribadendo la propria fede fascista, l’uomo concludeva la lettera con queste parole di speranza ma che, al contempo, sembravano presagire la tragedia che a breve si sarebbe abbattuta sulla popolazione ebraica: «Ossequiente, per principio, ad ogni legge emanata dallo Stato, penso che nell’applicazione delle stesse debba avere predomino assoluto il buon senso e l’umanità. Se questo principio dovesse fallire sarebbe una rovina».

In effetti anche questo caso si concluse in modo sfavorevole al ricorrente e nel settembre 1941 la Prefettura di Alessandria confermò l’esercizio abusivo della professione negando, contrariamente a quanto riferito dall’odontoiatra tortonese ai Carabinieri, di non aver mai chiesto di soprassedere ai provvedimenti di legge a suo carico.

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Per approfondimenti su questi ed altri casi, ricordiamo che Il fascicolo “Esercizio professionale di medici e farmacisti ebrei” può essere richiesto in consultazione in sala studio.

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